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Discussione: Normativa Regione Lazio - Indigeni - Problema mostra Gubbio

  1. #1
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    Normativa Regione Lazio - Indigeni - Problema mostra Gubbio

    Cari amici,

    come anticipato ieri sera, pubblico di seguito la memoria che ho redatto qualche tempo fa e che già avevo consegnato ad alcuni di voi per essere sottoposta al Consigliere Foschi. Contiene nella parte finale anche la norma "chiavi in mano" da far approvare dal Consiglio Regionale.

    Siccome ieri, durante la splendida serata a casa di Lorenzo (che di nuovo sentitamente ringrazio), si è discusso per l'ennesima volta del problema "indigeni nel Lazio", intanto pubblico quanto già affermato, in modo che tutti possano accedere al documento, e sono a disposizione di chiunque volesse esprimere dubbi o richiedere chiarimenti.

    ------------------------------------------------

    Memoria relativa all’allevamento degli uccelli “indigeni” nel Lazio e proposta di modifica dell’art. 19 della Legge Regionale 17/95


    Ad oggi l’allevamento della fauna selvatica nel Lazio è disciplinato dalla Legge Regionale n. 17 del 1995, ed in particolare dall’articolo 19. Tale legge si inserisce nel contesto disegnato dalla legge-quadro 157/92, statale.

    L’art. 19 della Legge regionale, che qui interessa, specifica che gli allevamenti devono essere autorizzati dalla Provincia e precisa che, nel caso si allevi “per fini amatoriali ed ornamentali”, sono autorizzati allevamenti per un numero limitato di specie e di capi.

    Tali specie, e capi, sono i seguenti:

    - una coppia di starne
    - una coppia di coturnici
    - una coppia di pernici rosse
    - un gruppo di fagiani costituito da un maschio e tre femmine

    Secondo un’interpretazione letterale della norma, sembrerebbe quindi che, nell’ambito della fauna selvatica, nel Lazio solo tali specie possano essere allevate, e solo nel numero (limitatissimo) ivi indicato.

    Questa interpretazione, da alcuni sostenuta, va tuttavia rivista e corretta.

    Per farlo, occorre soffermarsi su alcune circostanze.

    Innanzitutto va sottolineato che la situazione del Lazio appare essere unica, in quanto le altre Regioni, nella propria normativa, non prevedono alcuna limitazione, tanto meno così drastica. Si prenda ad esempio la Legge Regionale dell’Emilia Romagna (n. 5/05): questa non contiene alcuna limitazione in ordine agli allevamenti di fauna selvatica, e men che meno di uccelli.
    Appare quindi curioso che tale allevamento venga di fatto vietato nel Lazio e nelle altre Regioni, comprese quelle limitrofe, sia invece consentito. La norma andrebbe quindi interpretata utilizzando un criterio di logicità e di sistematicità, atteso che la tutela del patrimonio faunistico dello Stato, non può prescindere da una omogeneità di disciplina fra le varie Regioni, e da una coerenza di fondo nell’applicazione delle scelte.

    Va poi evidenziato che la Legge Regionale non definisce cosa sia un “allevamento”, e quindi sarebbe lecito chiedersi se il possedere una coppia, o anche dieci, di cardellini, nel proprio appartamento, meriti la considerazione del Legislatore e rientri nell’ambito applicativo di una normativa che impone addirittura registri, autorizzazione della Provincia e controlli almeno semestrali.

    Occorre poi notare che l’art. 19, di cui qui si discute, dopo aver elencato le specie ed il numero di esemplari che sarebbero consentiti, così recita: “I capi in soprannumero nella fase riproduttiva possono essere utilizzati ai soli scopi alimentari”. In sostanza se ci si ritrova con qualche capo in più, lo si può solo…mangiare. Se appare comprensibile per un fagiano, appare di difficile applicazione ad un cardellino.

    Ora, appare piuttosto evidente che tale normativa, vista la sua ratio, non ha nulla a che vedere con l’allevamento amatoriale di uccelli che non siano normalmente oggetto di caccia e non abbiano interesse di tipo alimentare. La norma infatti punta, in modo peraltro poco chiaro e scoordinato con le altre Regioni, a limitare l’allevamento della fauna selvatica per evitare la relativa predazione in natura. Tale limitazione è ottenuta imponendo un’autorizzazione da parte della Provincia, peraltro non richiesta nel caso di allevamenti gestiti dal titolare di un’impresa agricola (comma 2), e attraverso l’imposizione di una tassa di concessione per chi svolge attività d’impresa nel settore alimentare (comma 3).

    Viene quindi spontaneo chiedersi come mai la norma, secondo l’interpretazione che qui si discute, consentirebbe l’allevamento di qualunque specie, e di qualunque numero di soggetti, nel caso di attività di tipo economico, con relativa uccisione di animali destinati all’alimentazione, e non lo consentirebbe, se non per una decina di soggetti al massimo (si badi bene, di specie normalmente oggetto di caccia – fagiani ecc.), nel caso di allevamento amatoriale ed ornamentale.

    Trattandosi di legge sulla caccia, e quindi sul prelievo in natura, la risposta appare semplice: ilLegislatore consente il prelievo in natura, cioè la caccia, ai fini di allevamento, solo se questo ha una finalità economica che lo giustifica. Preferisce impedire quasi del tutto il prelievo se lo si fa solo per divertimento.

    Scelta assolutamente condivisibile, se ci si riferisce ad animali da reddito o comunque oggetto di attività venatoria.

    Il punto è che “allevare” non vuol dire “prelevare”, e nel campo dell’allevamento amatoriale di uccelli, ciò è particolarmente vero.

    Alle migliaia di iscritti alle varie associazione ornitologiche (leggasi bene: “ornitologiche”, non “venatorie”), nulla interessa prelevare in natura gli uccelli oggetto della loro passione, che vengono peraltro riprodotti da decenni in cattività e che sono costantemente protagonisti di mostre a livello nazionale ed internazionale (cardellini, ciuffolotti, verdoni ecc.).

    La normativa che si discute, se interpretata letteralmente, vieterebbe sostanzialmente l’allevamento di uccelli allevati in tutto il mondo, e che vediamo ovunque nelle mostre. E questo solo nel Lazio.
    Appare evidente che una norma nata per tutelare la fauna selvatica dal prelievo venatorio, va ad incidere in un settore completamente diverso a causa della sua approssimativa formulazione (quando il Legislatore, nel formulare le norme, comincia a dettare elenchi, c’è sempre da preoccuparsi).

    Per quanto sopra esposto, si ritiene quindi che la norma vada interpretata nel senso che è consentito allevare uccelli selvatici, ma per le specie ivi elencate solo nel numero e alle condizioni indicate. E fermi, naturalmente, i divieti di caccia e le altre disposizioni in materia.

    Certamente questa è l’interpretazione più logica e coerente per un testo altrimenti eccentrico rispetto alla normativa nazionale e delle altre Regioni. Sarebbe tuttavia preferibile una vera e propria modifica della norma, onde evitare conflitti interpretativi e garantire maggior tutela agli animali selvatici.






    Esiste infatti un modo per non solo mantenere, ma addirittura rafforzare il divieto di prelievo venatorio per la fauna selvatica, tutelando invece l’allevamento amatoriale, con relativa diffusione dello stesso e tutela delle specie selvatiche (qualcuno forse preleva oggi in natura canarini o pappagallini ondulati, oppure teme per la loro estinzione?).

    E’ questo modo che qui si intende proporre.

    Proposta

    Partiamo da una constatazione: gli uccelli indigeni che sono allevati e che qui si vorrebbe parificare, come trattamento, almeno alle altre Regioni, non sono specie a rischio estinzione.
    I vari cardellini (Carduelis carduelis), ciuffolotti (Phyrrula phyrrula), verdoni (Chloris chloris), frosoni (Coccothraustes coccothraustes), e via dicendo, non sono infatti inseriti in alcun allegato della Convenzione CITES, stando all’ultimo elenco approvato con Regolamento 407/2009 e successiva rettifica del luglio 2009.
    Questo vuol dire che la loro cessione è consentita a qualunque titolo, senza i limiti imposti dalla normativa comunitaria per le specie in Convenzione (Certificazione CITES, registro di detenzione ecc.).
    Attualmente, quindi, si possono allevare rari pappagalli e delicatissimi uccelli esotici, anche se inseriti in Convenzione (purché ovviamente regolarmente acquistati), ma non, sempre secondo la norma regionale e la sua interpretazione letterale (qui contestata), i diffusissimi e nostrani cardellini. Nemmeno una coppia. E questo solo nel Lazio.
    Per ovviare a questa incongruenza, una via potrebbe essere quella di modificare la norma regionale, abrogando tout court il comma 5 dell’art. 19, oppure, meglio, inserendo delle modifiche che aumenterebbero la tutela per le specie selvatiche, contrastando la predazione venatoria e portando la legislazione regionale ad un livello più elevato di sensibilità ambientale e all’avanguardia in Italia.

    Tale modifica dovrebbe portare all’assoluto divieto, opportunamente sanzionato, dell’allevamento di uccelli che non siano stati inanellati.

    L’inanellamento, chiaramente definito ed utilizzato a livello europeo (art. 66 Reg.CE 865/06), consiste nell’apporre un anellino inamovibile e con specifiche caratteristiche ad un uccellino, nei primissimi giorni di vita. Ciò garantisce senza possibilità di alterazione che l’uccello in questione è nato in cattività, perché già il giorno successivo all’inanellamento, quando il pullo ha ancora pochi giorni, tale anellino non può essere sfilato, e tanto meno inserito.
    L’uccello inanellato è senza dubbio nato in cattività, e quindi non è stato prelevato in natura.

    Come detto, tale pratica è utilizzata a livello europeo, proprio per consentire la libera cessione di uccelli che altrimenti non potrebbero essere ceduti in quanto rientrano addirittura nell’Allegato A del Regolamento che applica in Europa la Convenzione di Washinghton.
    Si fa riferimento all’articolo 62 del Reg.CE 865/06 che stabilisce che “non si applica” il disposto dell’art. 8, par. 3, del Reg.CE 338/97 (che limita la circolazione degli animali prevedendo un apposito Certificato perché ciò sia consentito), agli animali indicati nell’allegato X, che quindi possono liberamente circolare (carduelis cucullata – cardinalino del Venezuela / Cyanoramphus novaizelandiae – Kakariki a fronte rossa / Psephotus dissimilis – Pappagallo dal cappuccio, ed altre 18 specie di minor interesse ornitologico), purché “marcati in conformità dell’articolo 66 par.1”, cioè inanellati.

    L’art. 66, par. 1, del Reg.CE 865/06, definisce infatti i metodi di marcatura, ed in particolare prevede che “tale inanellatura della zampa avviene mediante un anello o nastro costituente un cerchio continuo, senza giunti o interruzioni, che non abbia subito alcun tipo di manomissione, fabbricato industrialmente a tal fine e applicato nei primi giorni di vita dell’animale; il suo diametro deve essere tale da impedire la rimozione dalla zampa dell’uccello quando questa sia pienamente sviluppata”.

    Si tratta, in sostanza, degli anellini comunemente utilizzati da migliaia di appassionati iscritti alle varie associazioni ornitologiche in tutto il mondo.

    Se tale inanellamento per l’Unione Europea costituisce assoluta garanzia che l’animale non è stato prelevato in natura, non si comprende per quale ragione ciò non dovrebbe valere per la Regione Lazio. La quale, introducendo l’obbligo di inanellamento per gli uccelli nostrani, avrebbe uno strumento formidabile per distinguere gli animali catturati in natura, cosa assolutamente da vietare (o da limitare ad una coppia di fagiani, tanto per richiamare almeno in parte l’attuale normativa), da quelli riprodotti da generazioni in cattività.

    Tra l’altro, occorre evidenziare che gli anellini che attualmente vengono utilizzati in ornitologia, non solo rispondono ai requisiti previsti dal Regolamento CE, ma riportano, addirittura, una sigla personale dell’allevatore che consente di risalire senza possibilità di errore al nominativo dello stesso. Ciò permetterebbe agli organi deputati di capire immediatamente se un uccello è nato in cattività e presso quale allevatore.

    Ben vengano sanzioni, anche pesanti, per chi possiede uccelli non inanellati, perché senza anello non si può avere la certezza della regolare provenienza.

    A tal proposito si suggerisce di introdurre sul punto un regime sanzionatorio che richiami almeno in parte quello nazionale, previsto nella L.150/92 in riferimento agli animali sottoposti alla CITES. Ovviamente la normativa regionale non può mutuare sic et simpliciter tale regime sanzionatorio, per esempio rimandando ad esso, in quanto si tratta di norme penali, che esulano dalla competenza locale. Tuttavia potrebbe essere introdotto un regime sanzionatorio di tipo amministrativo, con l’applicazione di rilevanti sanzioni pecuniarie.

    Alla luce di quanto finora esposto, volendo aderire alla succitata proposta, la norma di cui all’art. 19 potrebbe essere modificata con una legge regionale avente il seguente contenuto:


    Modifica dell’art. 19 della Legge Regionale del Lazio n. 17 del 2-05-1995

    Il comma 5 dell’art. 19 della Legge Regionale del Lazio n. 17 del 2-05-1995 è sostituito dal seguente:

    “Gli allevamenti di selvatici a scopo ornamentale ed amatoriale di cui al comma 1, lettera c), sono vietati, ad esclusione di quelli relativi ad uccelli regolarmente inanellati secondo le modalità previste dall’art. 66, comma 8, del Regolamento (CE) 865/06 della Commissione”.

    Al comma 6, dopo la parola “selvatica”, sono aggiunte le seguenti parole: “, salvo quelli di cui al comma precedente,”.

    Al comma 9, dopo la parola “alimentare”, sono soppresse le parole: “o ornamentale”.



    Avv. Roberto Condorelli
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  2. #2
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    Mi e` stato notificato un messaggio dell`utente Lancashire, con alcune osservazioni alle quale volevo rispondere. Mi sono pero` collegato e la risposta dell`utente non appare nel thread...e` successo qualcosa?
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