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Discussione: Lo Storno Fagiano (Muller 1776) A.Capecchi

  1. #1
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    Lo Storno Fagiano (Muller 1776) A.Capecchi

    Lo Storno Fagiano (Muller 1776)
    di Alamanno Capecchi

    Prima parte (1977- 1979)

    Verso la fine di luglio dello scorso anno venne a trovarmi di pomeriggio un vecchio amico livornese, trasferitosi da anni a Milano dove lavora come biologo in una grossa ditta farmaceutica. Etologo e ornitologo appassionato
    lui, zoofilo e ornitofilo io, seduti in poltrona nel mio studio, parlavamo del nostro argomento preferito, gli uccelli, mischiando il suono delle parole al fumo robusto dei nostri due sigari toscani, quando dal giardino un fischio modulato si fece udire più volte. C'è qualcuno che chiama il cane, disse il mio amico. Non chiama il cane questo " qualcuno ", sorrisi, chiama me. Mi
    guardò meravigliato; anche se i tempi sono cambiati, tutto sommato era uno strano modo di chiamare " un anziano signore ".
    La sua faccia assunse un'espressione involontariamente comica quando, senza alzarmi, risposi con un fischio perfettamente simile. Subito un grosso uccello scuro e lucente, dalla lunga coda graduata, si posò sul davanzale ed i suoi occhi gialli
    guardarono dentro. Visto che un estraneo sedeva nella poltrona vicina alla finestra, volò via. Dopo poco il fischi incredibilmente umano si fece riudire. Questa volta proveniva da uno dei quattro Abeti rossi che svettano alti oltre il tetto della casa.
    Che cosa è, mi domandò l'amico che, seduto un po' di sbieco, non aveva avuto neppure il tempo di vederlo bene.
    E' uno Storno splendente a coda lunga che possiedo ormai da più di due anni e che vive libero, risposi.



    Ti racconto la sua “storia”. Inizialmente erano due perché nel marzo del 1977 ne acquistai una coppia insieme a uno Storno splendente a coda corta e ad un Tucano sulfureo alloggiandoli tutti e quattro in una grande voliera. Uno,
    che risultò poi, con certezza, essere il maschio, aveva ancora la livrea giovanile di colore nero fuliggine uniforme.
    Per niente timorosi i primi tempi, alla sera tentarono di contendere al Tucano la scelta del posatoio ma, dopo aver ricevuto energici e ripetuti colpi di becco che il Tucano usava di lato senza aprirlo, muovendo la testa
    a dritta e a manca, desistettero e si accontentarono di appollaiarsi nelle vicinanze in un punto più basso. In pochi giorni cominciarono a riconoscermi e la distanza di sicurezza e di fuga a diminuire.
    Dopo due settimane, appena entravo in voliera con una provvista di insetti mi correvano incontro. Il più sveglio e meno sospettoso si dimostrò il giovane maschio. Quando somministravo le larve di Tenebrione, delle quali erano ghiottissimi, il maschio riusciva sempre a catturarne di più, senza violenza, fidando solo sulla sua " intelligenza " e sulla rapidità dei riflessi. Fermi tutti e due sul terreno a poca distanza da me, i loro occhi gialli fissavano con bramosia la grossa larva stretta tra le mie dita. Allora io, per favorire la femmina facevo finti lanci, improvvisi cambiamenti di direzione, ma inutilmente: quasi sempre era lui che per primo riusciva a scovare e catturare la preda.
    Dopo poco più di un mese volli liberare il maschio, facendo affidamento sulla femmina che dalla voliera avrebbe fatto da richiamo (ma in realtà durante la sua assenza non si curò di lui). Presi delle larve di Tenebrione e aperta parzialmente la porticina, cercai di indurlo ad uscire. Prontamente ubbidì e si posò tra i rami di un fico a pochi passi. Contemporaneamente volò fuori, rapidissimo, anche :lo storno a coda corta che dopo alcune evoluzioni intorno alla casa, si posò sulla parte più alta di un'antenna televisiva vicina e di lì puntò in linea retta verso sud scomparendo ben presto alla mia vista.

    L'altro, verso sera, si appollaiò sul ricovero nel quale rientrò appena aprii la porta. Il giorno successivo li liberai tutti e due; da allora continuai a farlo fino all'apertura della caccia, ritenendolo dopo troppo rischioso. Si allontanavamo anche di alcune centinaia di metri ma sempre a sera rientravano in voliera per passare la notte. Iniziarono la muta in maggio completandola in luglio ed anche il maschio rivestì la livrea dell'adulto ed entrò in fase amorosa. Corteggiava spesso la compagna accoppiandosi.
    Era diventato generoso: se gli gettavo vicino un pizzico di larve, ne prendeva una nel becco senza inghiottirla e incominciava ad emettere un suono sommesso e gracidante per richiamare la femmina; solo quando lei si avvicinava iniziava a mangiare. Molte volte, facendo lo stesso verso, sempre con un insetto nel becco, chinava la testa con piccoli movimenti come se invitasse all'imbeccata degli invisibili nidiacei. All'inizio dell'inverno trasferii il Tucano in un gabbione in casa. L’estate successiva misi in voliera soltanto i due Storni nella speranza si riproducessero. Adattai una botticina da un quintale e mezzo che riempii in parte con fieno e foglie, dopo aver praticato una conveniente apertura per favorire l'accesso e applicato un adatto posatoio.
    Verso la fine di luglio presero ad entrare spesso in questo loro nido e la femmina a trattenervisi a lungo. Ero solito lasciare aperta la porta della voliera per tutto il giorno, per dare modo alla coppia di entrare e uscire a suo piacimento.
    Questa opportunità si risolse in tragedia. Un Boxer di un vicino, liberatosi dalla catena, dopo aver fatto strage di galline nel pollaio, si introdusse nella voliera uccidendo la femmina che, intrappolata nel nido,
    per tentare la fuga finì nelle fauci spalancate del cagnaccio. Da allora il maschio è rimasto solo. Pur alternando lunghi periodi di prigionia, durante i quali è vissuto isolato a periodi di completa libertà, non si è mai allontanato oltre un raggio di poche centinaia di metri ritornando sempre, al tramonto, “all’ovile”. Dagli ultimi di marzo, da quando ho riutilizzato la voliera per gli uccelli esotici di piccola taglia, l'ho trasferito in soffitta e dopo tre giorni ho aperto la finestra: non mi ha creato problemi e puntualmente tutte le sere è tornato nella stanza per dormire.

    Presi l'abitudine, quando gli davo qualche insetto, ad emettere una serie di fischi modulati. Capì quasi subito che quel segnale voleva dire " ghiotti bocconi " ed era veramente comico quando al mio apparire tentava di imitarlo mescolando flebili fischi ad assordanti e gracchianti grida. Dopo molti tentativi ci riuscì perfettamente. Ho l'impressione che ritenga quella serie
    di suoni il mio " canto " perché ho notato che quando è solo emette quasi in continuazione dei versi propri della sua specie ma appena mi vede subito parla in quella “mia lingua " e questo anche se non ha fame, anche se la
    vista di un insetto preferito, che spunta dalle dita della mia mano protesa, non lo induce a ghermirlo a volo come fa molte volte. Allora lui dal ramo di un albero e io da terra iniziamo un duetto a base di fischi modulati, variati, flautati e mai uguali tra gli sguardi divertiti dei vicini.
    Il concerto andrebbe certamente per le lunghe se il buon senso non avesse il sopravvento e non ponessi fine alla “gara canora”. Per un po' insiste da solo, poi riprende il suo consueto canto.
    E' di carattere aggressivo e non sopporta la vicinanza di altri uccelli.
    L'anno scorso mi fu regalata una Ghiandaia allevata dal nido già indipendente e molto domestica, ma non mi fu possibile farla abitare con lui in voliera perché l'aggrediva in continuazione. Quando la vedeva, attraverso i vetri delle finestre, posata sul mio braccio intenta a ingoiare insetti subito dava in escandescenze. Gonfiava il piumaggio,
    abbassava le ali e con pupilla piccola piccola e orribili grida tentava di penetrare nella stanza. Avevo notato che la sua aggressività si manifestava solo quando veniva invaso il suo territorio: la voliera.
    Infatti in giardino tollerava la vicinanza non solo delle tortore ma anche dei
    passeri. Ritenendo che si trattasse di competizione per il cibo, liberai la Ghiandaia durante una sua assenza. Ma appena rientrò e la scorse, subito si precipitò contro di lei aggredendola con decisione.
    Gelosia? La inseguì di albero in albero gridando a squarciagola finché non si fu allontanata per sempre.
    A differenza degli uccelli allevati a mano che finiscono più o meno per diventare poveri esseri troppo fiduciosi, " diversi ", incapaci di affrontare i pericoli della vita libera con i propri conspecifici, ha conservato intatti tutti i suoi istinti naturali e la sua indipendenza. Pur avendo instaurato con me, e solo con me, un rapporto di " amicizia ", volandomi incontro quando lo chiamo e prendendo il cibo dalla mano, non si è mai posato sulla mia persona. Estremamente scaltro e prudente si tiene alla larga da uomini, animali o cose che non conosce volando lontano. Sopporta molto bene le basse temperature. D'inverno, quando lo tenevo in voliera, pernottava nella parte esterna anche se la temperatura era particolarmente rigida. Qualche mattina l'ho trovato con le ali coperte di brina e in perfetta forma.
    Mentre scrivo queste righe, quasi sapesse che sto occupandomi di lui, si posa sul davanzale e sbircia dentro dai vetri della finestra, poi si alza in volo: è ormai una macchia nera nell'azzurro del cielo.

    segue....

  2. #2
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    L'ultimo volo seconda parte (A.Capecchi)

    L'ultimo volo

    Seconda parte (19 giugno 1983)

    Mi arrampico lungo lo stretto sentiero che porta in cima al poggio, per la consueta passeggiata di fine settimana; mi seguono — more solito — Lupo, Pastore tedesco, Camilla, gatta soriana e, di albero in albero, King, lo Storno fagiano.
    Strana compagnia la nostra: un uomo, un cane, un gatto e un uccello a zonzo per i campi. Giunto sul piccolo pianoro, anche questa è diventata un'abitudine, mi siedo e subito il cane si accuccia ai miei piedi e la gatta mi salta sulle ginocchia. Nell'aria, che sa già d'estate, risuona insistente il canto forte e un po' aspro dello Scricciolo.
    Dopo poco lo vedo per un attimo; il tempo di emettere un gorgheggio e scomparire di nuovo tra le foglie. E' la prima volta che vedo lo Scricciolo da queste parti durante la buona stagione. Una Ballerina, scrutando il terreno, segue il trattore che sarchia; ad un tratto si ferma, riempie affannosamente il becco di vermi e vola via. A valle due Gabbiani reali perlustrano, con pigri colpi d'ala, il laghetto delle Trote.
    Dalla cima di uno degli alberi vicini alla riva la Cornacchia non gradisce questa sfacciata invasione del suo territorio e ripetutamente si scaglia contro il primo che le capita a tiro. Ad un certo punto vi è anche un timido tentativo di difesa degli aggrediti; ma questo provoca l'immediato intervento dell'altra Cornacchia rimasta nel nido e i Gabbiani fuggono in
    opposte direzioni, gridando a perdifiato.
    Lo Stornò fagiano, che fino a quel momento era rimasto tranquillo su un ramo vicino alla mia testa, mette in atto il suo rituale terrifico: gonfia le piume del corpo, abbassa le ali, alza la coda, e con le pupille contratte e la testa inclinata in basso, emette una serie di suoni cupi particolarmente sgradevoli, poi si alza in volo e scompare oltre la macchia
    dei rovi. Quando giungo a casa sento il suo richiamo provenire da uno degli Abeti rossi: « Fiiii-Foooo, Fiiii-Foooo».
    E' il fischio che gli ho insegnato e che vuol dire, a un di presso: « Dammi qualcosa di buono da mangiare ». Per accontentarlo mi affaccio dalla sua stanzetta, mostrando una larva di Tenebrione e ripeto il verso: « Fiiii-Foooo, Fiiii-
    Foooo ».
    Mi viene incontro afferrandola al volo e va a posarsi sul trespolo; allora chiudo la finestra, controllo l'acqua e il cibo, e vengo via.
    l giorno dopo lo trovo morto. E' affogato nel recipiente di plastica che sta sotto il rubinetto perché durante la pulizia dei contenitori del cibo,l'acqua non cada sul pavimento. Lo prendo e lo giro e rigiro tra le mani, nell'assurda speranza di cogliere un sia pur lieve segno di vita, ma è ormai una misera spoglia tutta bagnata. A parte il dolore per la perdita, mi sento in colpa; avrei dovuto tenere coperto il recipiente. A niente valgono i tentativi per persuadermi che forse la causa del decesso è stato un malore improvviso e che, dibattendosi disordinatamente durante l'agonia, sia caduto nell'acqua; quel recipiente è lì da più di due anni, e non si era verificato mai il minimo inconveniente. Nulla da fare; il rimorso resta.
    Con il passare del tempo, da quando scrissi di lui nel precedente articolo, era diventato più imponente e i colori cangianti, più belli e splendenti. Robustissimo, aveva sempre goduto ottima salute e solo una volta temei potesse morire. Fu nell'estate di due anni fa: una sera ,non tornò alla soffitta e invano il giorno dopo, di primo mattino, lo chiamai ripetutamente con il solito allettante fischio modulato: « Fiiii-Foooo, Fiiii-Foooo » niente, era scomparso. Non mi detti pace e ad intervalli di tempo ripetei il richiamo dall'alto della soffitta; finalmente mi rispose ma con un suono flebile, come emesso a fatica. Poi comparve sotto di me, alzò la testa e cercò di raggiungermi; volò arrancando fino ad una certa altezza, ma ricadde a terra; ripeté il tentativo altre due volte, ma sempre con lo stesso risultato.
    Scesi al primo piano e lo feci entrare da una finestra; mi seguì "di pedina" per il corridoio e salì i venti gradini che portano alla soffitta, ad uno ad uno, aiutandosi con le ali. Rimase per due giorni sul pavimento, mogio mogio, con il piumaggio scomposto, le ali e la coda cadenti e gli occhi socchiusi; poi la forte fibra ebbe il sopravvento e si riprese rapidamente. Penso che la causa possa essere stata l'ingestione di qualche insetto avvelenato.
    Ora che è morto, il maggiore rimpianto lo avrò per il suo comportamento, così diverso da quello dei numerosi uccelli che in passato ho allevato a mano. Comportamento di animale libero e intelligente, un po' "cane" e molto "gatto". Comportamento che lo faceva apparire ai miei occhi, gli etologi mi perdonino perché so di dirla grossa, pieno di dignità: un vero signore. L'ho sepolto ai piedi di un salice, accanto alla panchina dove qualche volta mi siedo a leggere e a meditare; l'ho voluto mettere in quel punto perché è un po' il mio colle de " L'Infinito ", anche se non c'è la siepe:
    « ... che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude ».
    Luogo rivolto verso quelle ampie distese che innumerevoli volte aveva sorvolato.
    Come ricordo mi è rimasta la sua fotografia. E la stessa pubblicata a suo tempo da « Avifauna »; un'immagine che non gli rende giustizia, sia perché in bianco e nero, sia perché, evidentemente impaurito dal fotografo, vi appare in una posizione quasi orizzontale che non gli era propria. La farò incorniciare e l'appenderò qui in biblioteca, in questa stanza senza tempo,
    piena di ricordi, ora tristi, ora lieti, ma quasi sempre soffusi di malinconia perché testimonianze di una parte di me o del mio mondo che se n'è andata per sempre.
    E anche questa fotografia sarà la memoria di un piccolo – grande dolore e di un rimorso e i rimorsi non sono come le cambiali:non scadono mai.



    http://www.tranexp.com:2000/InterTra...Submit=Traduci



    http://www.tranexp.com:2000/InterTra...Submit=Traduci



    Alamanno Capecchi
    nato a Pontedera (PI) il 25 settembre 1927.
    Laureato in farmacia. Zoofilo. Ornitologo dilettante.
    Menbro della Società Italiana di Scienze Naturali (Milano)
    Rappresentante nazionale C.R.O. ( Commission de ricerche ornithologique) della C.O.M.

    Autore di circa trecento articoli pubblicati da riviste italiane ed estere (Avifauna, Uccelli, Italia Ornitologica, Atualidades Ornitologicas, O Paporr
    ubio

  3. #3

    Non posso pensare ad un regalo di Natale "ornitologico" migliore di una storia come questa.
    Grazie.

  4. #4
    Paride
    Guest

    Le narrazioni del Sig. Alamanno Capecchi si leggono sempre e tutte d'un solo fiato anche se questa, eccezionale nella sua semplicità, non ha - purtroppo - un lieto fine.

    Vorrei poter dire al Sig. Capecchi che secondo me non deve sentirsi nè in colpa nè avere il rimorso per la morte del "suo" Storno fagiano. Si potrebbe supporre sia stato involontariamente avvelenato (cibo o larve o insetti pieni di pesticida) e qualche attimo prima di morire, forse avvertendo bruciori allo stomaco (come diciamo noi umani), avrebbe tentato di bere, cadendo fulminato dentro il recipiente.
    Infatti, come narrava, il recipiente era lì da più di due anni e non era mai successo nulla: secondo me, contrariamente a come la pensa il sig. Capecchi, quel recipiente ha dato al povero Storno degli attimi di ristoro e giovamento prima di cadere fulminato.

    Colgo l'occasione per augurare al sig. Alamanno Capecchi un sereno Natale.

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