Cervello, linguaggio, intelligenza animale: BrainFactor
intervista a Giorgio Vallortigara

Martedì 08 Settembre 2009

Giorgio Vallortigara è professore ordinario di Neuroscienze e direttore vicario del Center for Mind / Brain Sciences dell’Università di Trento. E’ anche adjunct professor alla School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’Università del New England, Australia. Autore di più di 160 articoli scientifici su riviste internazionali, in Italia ha pubblicato numerosi libri divulgativi, fra cui “Altre Menti” (2000), “Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze” (2005) – vincitore del Premio Pace per la divulgazione scientifica – e “Nati per credere” (2008), scritto con V. Girotto e T. Pievani . E’ nell’editorial board di “Animal Cognition”, “Frontiers in Behavioural Neuroscience”, “International Journal of Comparative Psychology” ed è editor della rivista “Laterality”. Oltre che nella ricerca, è impegnato in una intensa attività di divulgazione delle neuroscienze, su riviste e testate giornalistiche.


“Cervello, linguaggio, intelligenza animale”.

Professore, Lei sostiene che "molti animali sono più intelligenti di noi". Esattamente, in quali termini?

Se assumiamo che l'intelligenza sia la manifestazione di un insieme di capacità adattative, rese disponibili dai processi della selezione naturale, non è difficile accettare l'idea che nel confronto tra le varie specie si possano rintracciare vertici di complessità cognitiva, anche superiori alle nostre stesse capacità, e manifestazioni del tutto anodine, indipendentemente da quanto una specie ci sia vicina o lontana filogeneticamente. Varie specie di corvidi hanno capacità di memoria spaziale di gran lunga superiori alle nostre, i piccioni son più veloci degli studenti universitari a riconoscere immagini ruotate, i giovani scimpanzé hanno una memoria visuo-spaziale di fronte alla quale la nostra impallidisce... Naturalmente noi pure abbiamo le nostre proprie specializzazioni adattative, alcune delle quali non hanno eguali negli altri animali, come ad esempio il linguaggio.

Perché solo negli umani si è sviluppata la funzione del linguaggio?

Non lo sappiamo. Ci sono due punti di vista al riguardo. Secondo il primo la funzione linguistica emergerebbe in modo pressoché spontaneo raggiunta una certa complessità cerebrale e quindi mentale. Secondo un altro punto di vista, invece, sarebbe il risultato di specifici adattamenti e quindi relativamente indifferente alle qualità mentali complessive di una specie. Propendo per la seconda ipotesi, alla luce in particolare delle evidenze neuropsicologiche di dissociazione tra la funzione linguistica propriamente detta e gli altri meccanismi del pensiero.

In che cosa il linguaggio umano differisce dalla comunicazione animale?

Per il possesso di una sintassi, di una grammatica, che rende incredibilmente potente e creativo il sistema linguistico umano.

Considerando le strutture e le funzioni del cervello umano, quale relazione lega il linguaggio alle altre abilità cognitive?

Come dicevo poc'anzi, io propendo per l'idea della relativa indipendenza dei sistemi. Consideri ad esempio la capacità di condurre operazioni ricorsive, così celebrata nel linguaggio, come quando produciamo e comprendiamo frasi incassate. Ebbene, vi sono pazienti agrammatici che, a seguito di una lesione, hanno perduto interamente questa capacità per ciò che attiene al linguaggio, ma nondimeno possono, se opportunamente interrogati, ragionare e risolvere problemi di algebra che implicano l'uso della ricorsione.

In un recente intervento sulla stampa ha sottolineato che "il nostro essere speciali nel contare e usare strumenti è solo una questione di grado". Dunque, non esisterebbe una differenza "qualitativa" fra umani e animali, almeno in questi ambiti...

Per l'uso di attrezzi non vedo soluzioni di continuità. Nel caso del numero la faccenda è complicata. Gli animali (e i bambini piccoli, che ancora non san parlare) sembrano possedere due forme di rappresentazione pre-linguistica del numero: un sistema di aritmetica precisa per le piccole numerosità ed un sistema di aritmetica approssimata per le grandi numerosità. Come avvenga che nella nostra specie si possano sviluppare, almeno in certe culture, rappresentazioni precise di grandi numerosità è un po' un mistero. Contrariamente a quel che si crede non sembra essere stato il linguaggio la molla cruciale, quanto piuttosto la pressione ecologica relativa alle pratiche di scambio e di commercio avviate con la rivoluzione del Neolitico.

Lei sostiene che il linguaggio ci dà la possibilità di "condividere socialmente conoscenze, esplicitando processi di pensiero, ma al prezzo di qualcosa che forse ci ha tolto". Che cosa ci avrebbe "tolto" il linguaggio?

E' un'ipotesi. Se pensiamo alla distribuzione delle risorse nel cervello come un gioco a somma zero, l'impiego, presumibilmente importante, di tessuto nervoso per una determinata funzione, come il linguaggio, deve andare a scapito dello spazio cerebrale disponibile per altre, differenti, funzioni. Mi han sempre molto colpito, da questo punto di vista, le prestazioni dei bimbi, quando mostrano memorie eidetiche (o più semplicemente quando ci battono giocando a "Memory") o quelle, straordinarie, degli autistici savant, nei quali il progresso nel recupero o nello sviluppo delle funzioni linguistiche si accompagna al declinare delle loro doti speciali (per es. la capacità di contare con precisione a colpo d'occhio il numero di fiammiferi in una manciata lanciata a terra, come racconta Oliver Sacks). Come dicevo prima, animali, soprattutto giovani, come gli scimpanzé, mostrano essi pure prestazioni straordinare in compiti di memoria visiva immediata. Forse possono farlo proprio perché non parlano...

Allora, in una battuta, meglio con o senza linguaggio?

Meglio con il linguaggio, non c'è dubbio. Basta guardarsi attorno. Il linguaggio è una sorta di protesi cognitiva di straordinaria potenza. Ha consentito di dislocare le nostre menti dal loro substrato biologico usuale, per riporle nei libri, nelle biblioteche, negli edifici che costruiamo, nelle storie che ci raccontiamo...

Secondo Lei la ricerca condotta sugli animali (penso in particolar modo ai primati) può realmente aiutarci a comprendere i processi cognitivi umani?

Certamente sì. Anzi, per certi aspetti abbiamo imparato più dalle menti "semplici" che da quelle (supposte) complicate... Basta prendere in mano un manuale di neuroscienze per convincersene. Dagli studi sulla memoria nella lumaca di mare Aplysia, alla rigenerazione neuronale nell'apprendimento del canto nei canarini, ai meccanismi della memoria spaziale nei roditori: tutte le cose più importanti che abbiamo imparato sul cervello le dobbiamo alla ricerca sugli animali!

Intervista realizzata da Marco Mozzoni il 7/9/2009 © BRAINFACTOR Cervello e Neuroscienze http://brainfactor.it